La tua libertà finisce dove inizia la mia”. Principio giuridico o legge del Far West?

12.10.2023

Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase negli ultimi anni, dai sostenitori del pensiero unico al fine di giustificare prevaricazioni, discriminazioni e crimini di Stato verso l'umanità.

La frase "la tua libertà finisce dove inizia la mia" tanto in voga tra i sedicenti "esperti" televisivi di ogni cosa, ma completamente a digiuno di cultura giuridica, ripetuta con il tono perentorio, sembra uscita da un film western più che da un manaule di diritto.

In molti infatti, si sorprenderanno nel sapere che quella frase non è rappresentativa di alcun principio giuridico. Nessun giudice, avvocato o chiunque abbia studiato (e compreso) il diritto (se in buona fede) si sognerebbe mai di utilizzare quell'affermazione per perorare una causa e/o motivare una sentenza.

La frase, utilizzata con superficialità, è un insulto a millenni di storia della giurisprudenza e alle migliaia di esseri umani che, nel corso della storia, hanno combattuto per veder riconosciute, affermate e tutelati i diritti e le libertà umane fondamentali.

Ma se non l'ha detta nessuno tra Clint Eastwood, John Wayne, Gary Cooper, Robert Mitchum, Henry Fonda, James Stewart, Steve McQueen, Paul Newman, Kevin Kostner e pensate, neanche uno tra Bud Spencer e Terence Hill, allora da dove viene fuori?

Questa frase, attribuita a Martin Luter King, ma già presente negli scritti dell'economista Kant, decontestualizzata dal discorso che King fece o dagli scritti di Kant, diventa completamente fuorviante e, non a caso, può essere poi utilizzata come argomento persuasivo nel dibattito politico, o meglio pressappochista, da salotto TV.

La frase così gettonata, ha giocato un ruolo importante nella propaganda del pensiero unico e nell'accettazione della soppressione delle libertà fondamentali, perché rappresenta un chiaro esempio  di manipolazione linguistica. Infatti, è un caso di risonanza sentimentale.

La risonanza sentimentale è un bias cognitivo molto comune. Consiste nell'entrare in risonanza con una proposizione ritenendola vera (giusta, positiva ecc.) semplicemente perché ci ha emotivamente colpiti, ma senza averla sottoposta a un'analisi razionale.

Affermare e sostenere che "la tua libertà finisce dove inizia la mia" è una frase a effetto priva di ogni spessore concreto e razionale.

Per capirlo basterebbe porsi una semplice domanda: come si può capire dove comincia la libertà dell'altro? La risposta potrebbe essere: "Dove comincia la mia!"

È chiaro che ci troviamo dunque in presenza di un riferimento circolare che praticamente non si può risolvere né logicamente, né nella pratica quotidiana. Nella realtà esistono risorse o aspetti su cui gli individui convergono, e su cui possono rivendicare il proprio diritto di esercitare la propria volontà. 

La libertà non è semplicemente chiedersi cosa vogliamo e perseguirlo, a qualunque costo. La libertà in un contesto sociale è chiedersi cosa vogliamo e come possiamo ottenerlo rispettando gli altri. Quando ogni persona agisce con buon senso ed empatia, le regole non sono necessarie. Ciò presuppone però, che le persone siano state educate e abituate a pensare, e siano trattate come persone mature e adulte, consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. Ma nella nostra società è così? 

Ho già accennato, in alcuni post precedenti, di come il sistema di potere abbia creato un sistema (dis)educativo mirante alla creazione persone omologate ed obbidienti, che hanno necessità continua di qualcuno che gli dica cosa fare, quando farlo e come farlo.

Viviamo infatti in una società piena di regole, una società costituita in gran parte da persone infantili (infatti è così che i media e i politici si parlano e trattano iil pubblico e i cittadini) che non sono responsabili dei loro comportamenti e mancano di autodeterminazione, quindi hanno bisogno di norme esterne per regolare le relazioni.

Potremmo invece creare un vero e proprio sistema di convivenza e libertà per tutti. Ma per raggiungere questo obiettivo è necessario che ogni persona sia pienamente consapevole della propria scala di valori, dei valori scelti che non solo gli garantiscono di vivere come vuole, ma garantiscono anche il rispetto della libertà altrui. Per questo sarebbe necessario ricreare una cultura democratica reale.

Da tempo ripeto che un Paese formalmente democratico senza una diffusa cultura democratica, non è una democrazia!

Siccome purtroppo così non è, in teoria le leggi esistono per dirimere questi potenziali o reali conflitti. Ci sono però delle zone grigie, in cui l'applicazione del diritto diventa più complessa.

Pur tuttavia nel diritto (in senso oggettivo, cioè come il sistema delle norme giuridiche presenti in un ordinamento giuridico o delle norme che regolano una determinata disciplina) o se preferite in giurisprudenza, che è bene ricordare ha avuto inizio fin dalle prime leggi scritte (per quanto inique o barbare) ai tempi delle civiltà mesopotamiche, per poi evolversi nel corso dei millenni, per arrivare fino ai nostri giorni, passando per la civiltà romana, vero crocevia dell'odierno diritto, sono stati creati concetti ben distinti per poter "regolare" eventuali reali o apparenti conflitti.

Sto parlando della differenza che c'è tra diritto e interesse e, ancor più tra "diritti individuali" (quelli umani fondamentali) e "interessi collettivi".

Anche questi concetti, sono stati strumentalmente e deliberatamente accumunati nel dibattito pubblico, privandoli delle loro peculiarità e annullando i loro rapporti di forza e precedenza, in modo da far apparire ragionevole, sensato e possibile l'annichilimento di uno nei confronti dell'altro.

Spesso ciò è accaduto al fine di conferire maggiore credibilità e autorevolezza alla già di per sé manipolatrice frase da far west sopra citata.

Alcuni hanno voluto spiegare la frase come un invito a "mettere da parte le convinzioni personali e gli egoismi per il bene comune" o "l'importanza di un equilibrio tra la libertà individuale e il rispetto per gli altri". L'idea fondamentale è che ogni individuo ha il diritto di agire e vivere liberamente, ma è altrettanto responsabile di non ledere i diritti e le libertà degli altri. Il tentativo reiterato di manipolare l'opinione pubblica è ulteriormente evidente.

Infatti, si vuole sottintendere che il godimento di un proprio diritto possa ledere gli altri e che quindi i diritti siano una cosa socialmente "negativa" che sarebbe opportuno accantonare se in ballo "le libertà" degli altri (ma qui si torna al no senso, al riferimento circolare del significato stesso della frase) che sarebbe da anteporre alla propria. Oltretutto qui non si parla di "convinzioni personali o egoismi" da contrapporre al "bene comune", ma di diritti umani e democratici fondamentali!

Ma nessuno si è mai degnato di spiegare questi concetti al pubblico perche faceva comodo che non capisse!

Se, quando chiamati in causa da pseudo esperti da salotto tv, conduttori e giornalisti, oltre che addirittura da medici, si potrebbe ancora pensare che tali signori non avessero chiare le differenze tra i due concetti, tale attenuante non è possibile attribuire ai giuristi, costituzionalisti o addirittura alle "autorità garanti della Costituzione" e Primi Ministri che si sono espressi allo stesso modo.

Questi ultimi indegni personaggi, che hanno volutamente messo sullo stesso piano diritti individuali e interessi collettivi, hanno altrettanto volutamente attentato alla natura democratica del nostro Stato e dell'ordinamento giuridico e, avendolo fatto oltretutto nell'esercizio delle loro funzioni rappresentanti dello Stato, andrebbero perseguiti con ben più vigore (se esistesse realmente una Magistratura indipendente).

Se è vero poi che in uno Stato che voglia definirsi civile e democratico, deve esserci un bilanciamento tra diritti individuali e interessi collettivi, è altrettanto vero che in giurisprudenza i diritti non sono tutti uguali.

Nelle moderne democrazie, distinguiamo oggi diversi gruppi di diritti riconosciuti a tutti i cittadini. Abbiamo i diritti civili (diritto alla vita, libertà di autodeterminazione, libertà di manifestazione di pensiero, libertà di movimento, inviolabilità del corpo, libertà di culto, libertà di stampa e informazione, libertà di associazione, diritto di sciopero, diritto di manifestazione pubblica), diritti politici (diritto di elezione, diritto di candidatura politica, diritto di associazione partitica), diritti economici (diritto di proprietà privata, libertà di capitale, diritto di stipulare contratti, libertà di mercato, libertà di impresa), diritti sociali (solidarietà sociale, assistenza sanitaria universale, pari opportunità di lavoro, diritto d'istruzione).
A questi gruppi di diritti, se ne affianca un altro di recente istituzione, non ancora pienamente ed egualmente riconosciuto in tutti gli ordinamenti giuridici. Sono i cosiddetti diritti di terza generazione frutto soprattutto della modifica culturale e del pensiero, avvenuta in gran parte del mondo occidentale negli ultimi quarant'anni. Di questo gruppo fanno parte ad esempio, il diritto di decidere sul proprio corpo (libertà di cura, diritto all'eutanasia, al suicidio assistito al testamento biologico), la libertà di orientamento sessuale, libertà di accedere ai frutti delle nuove scoperte scientifiche (come il diritto all'aborto o alla fecondazione assistita), ecc.
Tutti questi gruppi di diritti, sia quelli tradizionali sia quelli di recente istituzione, possono essere classificati secondo un criterio che prende in considerazione la loro "forza", intesa come possibilità di farli valere o meno nei confronti di qualunque soggetto.
In tal caso possiamo distinguere:
- i "diritti assoluti" (poiché possono essere fatti valere su qualunque soggetto, anche nei confronti dello Stato); fanno parte di questa categoria di diritti, tutti i diritti civili e gran parte di quelli di terza generazione, come la libertà personale, la libertà di circolazione e soggiorno, la libertà di domicilio, la libertà della segretezza della corrispondenza (oggi più compiutamente diritto alla privacy), la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto alla vita e all'integrità psicofisica, il diritto al mantenimento della cittadinanza e della capacità giuridica, ecc.);
- i "diritti relativi" (quelli che possono essere fatti valere solo nei confronti di particolari soggetti). Di questo gruppo fanno parte i già citati diritti sociali e alcuni tra quelli di terza generazione;
- i "diritti funzionali" (quelli cioè il cui esercizio costituisce un qualcosa di circoscritto a determinate situazioni). Questo gruppo è rappresentato dai diritti politici, da quelli economici e da alcuni diritti sociali.
Qualunque sia la classificazione che si voglia adottare, e sebbene il loro riconoscimento, la loro tutela e garanzia costituisca un elemento essenziale per valutare il "grado di democrazia" di un Paese, è evidente che i diritti non hanno tutti la stessa importanza.
Non è un caso, infatti, che la categoria dei diritti civili e buona parte di quelli di terza generazione, siano definiti dall'ordinamento giuridico nazionale e internazionale come "diritti assoluti" poiché inviolabili e mai derogabili, neanche di fronte allo Stato o agli interessi collettivi di cui si potrebbe far portatore.

*Brano tratto dal libro "Fact-Checking - la realtà dei fatti, la forza delle idee"

La relativizzazione dei diritti è in antitesi con qualunque pensiero democratico e umano. La democrazia si basa, infatti, sull'uguaglianza tra le persone e l'uguaglianza c'è soltanto in presenza della garanzia dei diritti umani fondamentali. Ciò è possibile solo quando si riconosce la presenza di diritti assoluti (e quindi inalienabili e inderogabili) e mai relativi.

In una società che si dichiara democratica ma che considera tutti i diritti come relativi, è una finta democrazia, in cui la libertà è solo fittizia e la cui illusoria percezione è data solo dalla lunghezza dell'invisibile catena con cui sono legati gli schiavi, chiamati cittadini.

Non sorprende che i maggiori sostenitori di questo tipo di pensiero smaccatamente relativistico, apparentemente collettivista ma intimamente individualista e opportunistico, siano le forze politiche "progressiste", alcune delle quali hanno addirittura avuto l'ardire e la sfrontatezza di inserire, ormai anni or sono, nel nome del proprio partito l'aggettivo "democratico".

È bene chiarire una volta per tutte che chi si dichiara progressista (e dunque relativista), indipendentemente dal colore politico, è un fondamentalmente un antidemocratico, assolutista, egoista prevaricatore (nazista, fascista, comunista, socialista, poco importa). Insomma, il classico lupo travestito da agnello.

Essere poi democratici di sinistra, proprio perché ci si rifà al relativismo progressista, è un ossimoro. Lo sanno bene gli stessi esponenti politici che oggi militano nel citato partito sedicente "democratico", quando vent'anni fa si accorsero come fosse troppo sfacciato chiamarsi "Democratici di Sinistra", ed hanno poi virato sull'odierno nome meno "appariscente" e rassicurante.

Accumunare genericamente tutti i diritti, è metterli poi sullo stesso piano degli interessi collettivi e affermando che i primi possono essere "compressi" (nel linguaggio orwelliano, ma che significa in realtà "soppressi") a favore dei secondi, è un deliberato atto criminale mirante a schiavizzare i cittadini, negando il valore assoluto, (e quindi l'inviolabilità e l'inderogabilità) dei diritti umani fondamentali, a favore di un fantomatico interesse collettivo, dietro cui spesso poi si nascondono solo interessi privati (economici, politici, ecc) e di lobby.

Ciò che conferma la malafede è che lentamente l'espressione "diritti individuali" in contrapposizione a quella di "interessi collettivi", è stata, addirittura soppiantata anche nei discorsi ufficiali di chi risiede nei palazzi del potere (politico) e che il nostro Paese dovrebbe rappresentare (oltre che fungere da "garante della Costituzione"), dall'espressione "interessi individuali".

Posta così, nella nuova veste di contrapposizione tra "interessi individuali" e "interessi collettivi", nessuna persona di buon senso (neanche il sottoscritto) avrebbe argomentazioni per ribattere.

Purtroppo però, le cose stanno diversamente e i diritti individuali (parlo solo di quelli assoluti, e quindi quelli umani fondamentali, come quelli civili e parte di quelli di terza generazione) in un Paese realmente democratico, dovrebbero sempre prevalere sugli interessi collettivi, perché l'essere umano è più importante dello Stato.

Per fugare qualunque dubbio a riguardo, propongo infine una riflessione per tutti quelli che conservano ancora un minimo di salubrità cerebrale, un po' d'indipendenza di pensiero e di capacità logica cognitiva, ma che si sono fatti persuadere dal pensiero relativista e fintamente buonista, ponendo delle domande: può esistere l'uomo senza lo Stato? Certamente sì, non ci sono dubbi.

Ora proviamo a pensare e rispondere a un'altra domanda: può esistere lo Stato senza l'uomo? Ancora una volta la risposta non lascia spazio a dubbi, ma questa volta è un secco e deciso No!

Nel corso del tempo, i giuristi di tutte le epoche che hanno riflettuto sulla democrazia, si sono posti queste due domande e hanno sempre trovato le medesime risposte che ci siamo dati anche noi.

È evidente quindi che sebbene ci sia la necessità di bilanciare le libertà di tutti gli individui e gli interessi della collettività, i concetti e le scale gerarchiche di potere tra i vari diritti, così come la prevalenza di questi sugli interessi collettivi, deve essere sempre riconosciuta, pena una civiltà in cui i rapporti sociali tra individui e quelli tra questi ultimi e lo Stato saranno regolati soltanto dalla violenza e dalla sopraffazione del più forte nei confronti del più debole. Chi accetta quindi queste logiche, sta contribuendo a far tornare l'umanità al Medioevo! Altro che progresso!

Stefano Nasetti

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